beitshar.com                                                                                                                                                                                                                alberto savioli

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Damasco in pericolo

21 Novembre 2007 - Piove da due giorni, l’acqua scorre abbondante sulle pareti di fango delle case e impregna il legno dei cornicioni lavorati, più del sole, del vento e del tempo, sono la pioggia e l’incuria il maggior pericolo per la città vecchia di Damasco.
Da quando arrivai in Siria nel 1997 questa città non sembra cambiata, in realtà piccoli mutamenti quotidiani, impercettibili, quasi invisibili, ne minano la sua sopravvivenza.
Vivo in una vecchia casa nel quartiere a ridosso di Bab al-Salaam (la porta della pace), nella zona nord della città vecchia, i segni di questo degrado sono evidenti. Mi affaccio dalla finestra e di fronte, si staglia un’altra vecchia casa, l’intonaco bianco di fango presenta crepe, parti mancanti ne evidenziano i mattoni di fango sottostante, le grate di legno delle finestre sono marce e cadenti, lo stesso dicasi per le travi lignee che sostengono il secondo piano della casa.
La città di Damasco, in arabo as-Sham o Dimashq, è menzionata per la prima volta come Dimashqa nelle tavolette cuneiformi del regno di Mari (2500 a.C.), nel sottosuolo vi sono fasi storiche del periodo Amorreo e Aramaico, l’urbanistica della città conserva elementi Greco ellenistici e monumenti architettonici di rilievo ne testimoniano l’epoca romana.
Con le dinastie islamiche succedutesi nel tempo, Damasco accrebbe la sua bellezza con la costruzione di nuovi monumenti architettonici, per questo motivo nel 1979 la città vecchia venne protetta dall’UNESCO quale patrimonio dell’Umanità.
Questo atto, teso alla sua conservazione e sopravvivenza, ne tutela non solo i monumenti storici importanti, ma tutta la città vecchia comprensiva delle abitazioni private, dei caravanserragli, dei magazzini, della sua conformazione particolare fatta di vicoli e stradine, una sorta di ricamo attorno ai monumenti più belli.
Questo perché è un esempio unico di abitato tradizionale, le case sono costruite con una struttura lignea e con mattoni di fango impastato con paglia ed essiccati al sole, il tutto è intonacato esteriormente con un misto di fango e calce.
Le case, nella loro struttura attuale, risalgono quasi tutte agli ultimi 300 anni della città, le più belle e ricche sono grandi abitazioni del 1700, il cui piano inferiore è costituito da corsi alterni di pietre basaltiche nere e marmi bianchi e rosa, tutte le stanze danno su un’ampia corte con una fontana centrale, a volte questo spazio è un vero e proprio giardino, con alberi di limone e gelsomini. Al piano inferiore sono presenti due elementi tipici, il primo è una stanza adibita a rappresentanza durante l’inverno, decorata in legno e dipinta con elementi vegetali e paesaggi, ogni spazio qui è un’esplosione di colori e decorazioni. Il secondo elemento è l’iwan, una stanza aperta su un lato che si affaccia sulla corte scoperta, utilizzato come sala di ricevimento estivo e sormontato da un grande arco decorato e da un soffitto ligneo dipinto. I secondi piani, presentano la tecnica costruttiva delle case più umili, il legno e i mattoni di fango essiccato e all’esterno aggettano sul vicolo sottostante.
Alcune delle case più belle sono state restaurate e trasformate in hotel e ristoranti, tuttavia la città è protetta dall’UNESCO in quanto unica architettonicamente e urbanisticamente, a prescindere dal valore storico o artistico dei singoli edifici, quindi tutta la città vecchia è protetta e tutta andrebbe conservata e salvata.
Questo è il problema maggiore, non solo la difficoltà di restaurare private abitazioni che non hanno un valore artistico, da parte di proprietari che spesso vivono in condizioni indigenti, ma anche la mancanza di un piano organico di tutela.
Facciamo ora due passi attraverso la città antica per valutare questo degrado. Partiamo dalla moschea sciita di Saida Roqaiyah, un bel esempio di architettura moderna sciita, tuttavia la sua costruzione in anni recenti, ha portato alla distruzione di tutte le abitazioni che occupavano l’area.
Tra questa moschea e Bab al-Salaam, case aggettanti sul vicolo sembrano schiacciarci e toglierci luce, non una di queste ha visto un restauro o una nuova intonacatura negli ultimi trent’anni, la stessa casa estiva di Abd el-Kader al-Jazairi (l’eroe della rivoluzione algerina) si trova in condizioni fatiscenti. Questa casa che si affaccia sul fiume Barada, rimane in piedi grazie alle parti basse in basalto che la sostengono, il legno delle verande è marcio, l’intonaco inesistente, sul tetto di fango cresce l’erba.
Nel quartiere di al-Amin, il ghetto ebraico della città vecchia, c’è una bellissima casa, risale agli anni 30 del 1700 e possiede probabilmente le più belle decorazioni all’interno, anche lei è abbandonata alla stessa sorte delle altre case.
Si tratta di Beit Bekae’i-Lisbona (beit-casa), una grande casa appartenuta ad una ricca famiglia ebraica, dalla strada che la costeggia è possibile vedere l’interno attraverso le finestre rotte, si intravedono le decorazioni azzurro-verde delle porte e dei soffitti, alcune di queste sono rovinate altre si stanno staccando, l’intonaco dei secondi piani è scrostato e mostra la struttura portante di legno e i mattoni in fango.
Percorrendo una delle vie più importanti della città, Madhat Pasha, la Via Recta romana (il decumanus maximus) poco prima di Bab Sharqi (la porta orientale), è possibile osservare sulla sinistra una bella casa con le colonne tortili lignee della veranda, i listelli di legno del finto architrave curvato, si stanno staccando, pezzi di legno e d’intonaco minacciano di cadere da un momento all’altro.
Queste case non sono semplicemente abbandonate all’incuria, ma vi sono veri e propri piani di distruzione della città, in nome dello sviluppo edilizio.
Non più tardi dello scorso anno, un intero quartiere di abitazioni tradizioni ad un centinaio di metri dalla Cittadella, è stato raso al suolo. Vi sarebbe addirittura un progetto del comune di Damasco osteggiato da alcuni intellettuali, di radere al suolo i quartiere interi di al-Amarah e di al-Manakhliyya che si trovano appena fuori le mura verso nord, per fare posto a moderni palazzi e strade che consentono una viabilità più fluida. Ma un analogo piano di ammodernamento riguarderebbe la parte di città all’interno delle mura stesse, con il progetto di allargare la Via Recta (sempre intasata) abbattendo case, negozi e khan (caravanserragli) che risalgono all’epoca medievale.
In internet è possibile trovare una petizione rivolta all’Unesco per scongiurare questo scempio, voluto da chi tenterebbe di conciliare una città tradizionale e antica, con moderne arterie stradali, hotel e ristoranti, dove questi ultimi avrebbero la priorità.
Un piano organico di tutela, conservazione e restauro per l’intera città vecchia di Damasco, come presumibilmente intendeva l’UNESCO è fondamentale, anche per proteggerla “dall’intelligenza” di alcuni individui, che potrebbero svegliarsi un giorno con l’idea di radere al suolo parti della città vecchia, per far posto ad una nuova Las Vegas.
A noi non rimane che prendere coscienza della precarietà di questo gioiello e per il momento aggirarci tra i vicoli della città sperando che alla prossima visita sia rimasto tutto almeno come prima.
 




















I nomadi della polvere

“Polvere, polvere, qui è pieno di polvere e non c’è acqua”, mi diceva la scorsa estate un nomade della tribù Fed’an mentre i suoi dromedari mangiavano spinosi cespugli, eravamo a Chola, uno dei luoghi più aridi e caldi del deserto siriano.
Le piante dei suoi piedi erano dure e spesse come il cuoio, la sua pelle arsa dal sole aveva il colore del cuoio. A distanza di sei mesi mi trovo sotto ad una tenda beduina della tribù degli Hadidiyn, ad Arak, gocce di pioggia mi cadono in testa filtrando dal tessuto della copertura, madido d’acqua e quella polvere estiva si è trasformata ora in fango.
Le persone che mi circondano sono ben diverse da quel beduino conosciuto in estate, la loro pelle è chiara, hanno gli occhi azzurri ed i capelli castano chiaro.
La loro economia si basa sull’allevamento di pecore e capre, da cui ricavano tutto ciò di cui hanno bisogno, la loro stessa casa, la tenda, è ottenuta tessendo i fili fatti con il serico pelo delle capre.
Questa tribù, stanziata nei pressi di Palmira, è una delle circa cinquanta che abitano il territorio siriano. Le tribù dei Fed’an, Sba’a, Rwalla, Shammar, arrivarono per ultime in Siria, tra il 1700 e gli inizi del 1800 dall’Arabia Saudita. I Mawali, presenti qui dal 1500, sarebbero addirittura discendenti dei Califfi Abbasidi di Baghdad, mentre gli Amur, sono gruppo eterogeneo, di ladri, predoni ed elementi fuoriusciti da altre tribù.
Culla della maggior parte delle tribù beduine fu l’Arabia Saudita, da cui ne uscirono con ondate migratorie successive, nei periodi di maggior siccità, alla ricerca di nuovi pascoli più fertili. Il fenomeno è molto antico, tavolette cuneiformi del XVIII sec. a.C. (provenienti dall’antica città di Mari) danno una distribuzione nella zona siriana dei gruppi tribali presenti allora. Poco e molto è cambiato da quel tempo, il modo di vita è rimasto uguale, anche se le riforme agrarie degli anni ’30 del 900 avvenute in Siria, hanno fissato al suolo molti gruppi, e l’uso dei camion per spostare il gregge, ha modificato alcune vie di transumanza.
Molto è cambiato osservando Jumane che mi sta di fronte, 13 anni, una perfetta donnina di casa, mentre cerca il cellulare per il papà con in braccio il fratellino di pochi mesi.
“Fai presto con la nonna” mi dice, “tra poco il camion parte e si va a portar da bere alle pecore”, raggiungo l’anziana e la trovo intenta a riparare un pezzo di tenda rosicchiata dai topi.
“Ah eccoti” mi dice, sfilando dalla scollatura del vestito un involto di stoffa, “siediti, lo sai che sono una brava bassara?” (colei che predice il futuro), sparge a terra il suo contenuto: una vecchia moneta ossidata, dei pezzi di ceramica romana, conchiglie e perle colorate. Raccoglie tutti gli oggetti e li getta a terra, più e più volte, poi comincia e predirmi il futuro, “sei fortunato, arriveranno dei soldi”, non la ascolto, i miei occhi e i miei pensieri sono catturati dai tatuaggi neri che le ricoprono il volto. Ogni tribù ne ha di diversi, l’insieme dei motivi decorativi caratterizza un gruppo rispetto ad un altro, le donne Hadidyin come quest’anziana e le Beni Khaled sono le più decorate. Alcuni motivi tatuati come la gazzella, rimandano ad un periodo in cui la steppa siriana era piena di questi animali. Guardandola predirmi il futuro e vedendo i suoi tatuaggi mi viene da pensare che la tradizione è forte, poco cambierà.
Jumane mi chiama, la raggiungo e le chiedo scherzando “e tu, non ti fai i tatuaggi come la nonna?” no mi dice, “non si usa più, non mi piace”, e cosa ti piace le chiedo, ci pensa un poco poi mi risponde “i trucchi, mi piace il maquillage”.
Forse il senso di una tradizione che cambia è in questa risposta, mentre la nonna da giovane guardava alla madre e ne copiava i tatuaggi, Jumane copia le giovani cantanti libanesi come Elissa, che ha modo di vedere per televisione.
Ma la polvere in estate e il fango in inverno, rimangono per Jumane come per la nonna e per i loro avi, una costante della vita quotidiana.
 

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